sabato 31 dicembre 2016
lunedì 22 agosto 2016
CS10 Capacità geografica: Trasporti e Comunicazioni I
CS 10
CAPACITA’ GEOGRAFICA:
TRASPORTI E COMUNICAZIONI
A)
Numero abbonati alla DSL
Indice che
misura, in consenso con altri, la diffusione delle telecomunicazioni nello
Stato. Qui è preso in esame la DSL.
B)
Numero cellulari per 1000 abitanti
Indice che misura,
in consenso con altri DSL e telefoni fissi per abitante, la diffusione delle
telecomunicazioni nello Stato. Qui è preso in esame il numero dei cellulari per
ogni 1000 abitanti. Per cellulare si intende i telefoni portatili che si
allacciano ad un servizio pubblico di telefonia mobile.
info:geografia 2013@libero.it
giovedì 28 luglio 2016
Capacita geografica: energetica III
6)
Fonte
nuova in industria
Indice ripartisce la fonte nuova di uno Stato in tre
settori/ agricolo (primario) industriale (secondario) e servizi (terziario)
questo riporta l’indice del 2° settore.
7)
Fonte
nuova nel terreno
Indice ripartisce la fonte nuova di uno Stato in tre
settori/ agricolo (primario) industriale (secondario) e servizi (terziario)
questo riporta l’indice del 3° settore.
Disponibilità
di calorie per abitante
L’indice misura la disponibilità di – per la
popolazione di uno Stato.
Numero
delle raffinerie
È la quantità degli impianti che uno Stato ha
disponibili.
giovedì 23 giugno 2016
CS9 Capacita Geografica: Energetica II
3)
Energia
elettrica –
Indice misura la produzione annua totale in milioni
di kW/ore di uno Stato.
4)
Energia
rinnovabile
Indica che è prodotta con fonti rinnovabili, che
sono -, geotermica, solare fotoelettrica eolica, biomasse.
5)
Energia
non rinnovabile
Indice misura l’energia prodotta da fonti non
rinnovabili, come combustibili fossili e nucleari.
L’indice e quello precedente si completano, a 100.
info: geografia2013@libero.it
domenica 12 giugno 2016
CS9 Capacità Geografica. Energetica I
1)
Consumo
energia elettrica per abitante
L’indice indica il consumo per abitante dell’energia
elettrica prodotta, sia che essa sia attuata con la -, con il nucleare o con la
combustione termica di combustibili solidi, liquidi gassosi o di origine
fossile.
2)
Energia
elettrica installata
Indice riporta la massima potenza elettrica
erogabile per la produzione di potenza attiva nel complesso delle centrali
termiche di uno Stato, supportando la completa efficienza degli impianti
incendiari attivati di stabilità.
Info: geografia2013@libero.it
CS8 Capacita geografica: Climatica III
FS73.H3
Aree Protette
Per
preservare le foreste da elementi depauperanti sono state create delle aree
protette con una speciale legislazione affinché possano essere mantenute; in
alcuni casi questa speciale legislazione permette uno sfruttamento intelligente
delle foreste.
Il
valore rilevato è la % dell'area protetta in relazione alla superficie del
territorio nazionale.
lunedì 16 maggio 2016
CS8 Capacità Geografica. Climatica II
FS72.H2
Deforestazione
Il
disboscamento distruttivo, cioè lo sfruttamento superiore ai tempi di
rinnovamento naturale porta alla dissipazione delle foreste tropicali, provoca
erosione dei suoli, isterilimento, desertificazione, dissesto idrogeologico.
Buona
patte delle foreste naturali non corrisponde più alle associazioni vegetali
originarie, foreste primarie, perché degradate dallo sfruttamento e ridotte a
foreste secondarie. Il disboscamento e la deforestazione è diventato una vera e
propria emergenza ecologica. A livello planetario i tentativi di arginare la
deforestazione non hanno dato oggi risultati decisivi per un circolo vizioso di
presenti interessi nazionali, secondo i quali ogni paese è libero di sfruttare
a sua discrezionale proprie risorse, ed interessi speculativi nazionali.
Il
disboscamento nel corso del secolo scorso è stato pari ad una riduzione del manto
forestale del 25% passando da 50.000 di km2 a 378,7 milioni di km2 4
L'indice
rilevato è dato dalla% di area disboscata sul totale della foresta. I valori
negativi indicano un aumento dell'area forestale
martedì 3 maggio 2016
CS8 Capacita Geografica: Climatica
FS71.Hl
Foreste
Le
foreste rappresentano una risorsa fondamentale perché il legname è sempre stato
uno dei materiali più utilizzati dall'uomo per la sua enorme varietà di
essenze. Si calcola che al mondo vi sono oltre 30000 specie arboree. Può essere
impiegato come combustibile, per la costruzione di edifici ed infrastrutture
per la produzione di utensili e beni di consumo, come attrezzi, mobili ecc., come
materia prima industriale, cellulosa, pasta di carta. Si stima che il settore
dei prodotti forestali rappresenti l' 1% del PIL Mondiale.
Le
foreste svolgono un ruolo ambientale insostituibile difficilmente valutabile in
termini economici.
All'inizio
del secondo millennio le foreste coprivano il 38,7 milioni di km2 pari al 30%
delle terre emerse, senza contare la Groenlandia e l'Antartide. Il volume delle
legname era pari ai 400 miliardi di m3
Per
abitante l'estensione boschi va mondiale è pari al 0,6% per abitante
L'indice
rilevato è in percentuale della superficie territorio nazionale?
giovedì 24 marzo 2016
Motori Elettrici
domenica 28 febbraio 2016
NUove Tecnologie
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![]() Eppure, già provata da un combinato disposto potenzialmente letale di Brexit, crisi bancarie ed emergenze migratorie, lo scorso settembre la Commissione europea ha seriamente rischiato di veder sfumare uno dei vanti della presidenza Juncker. Nodo del contendere il contenuto dell’atto d’implementazione che la Commissione europea dovrà presentare entro il 15 dicembre prossimo per completare il regolamento, già approvato dal Parlamento europeo nell’ottobre 2015, che sancisce la rimozione delle tariffe sul roaming da giugno 2017. La clausola di “fair use” e i rischi di distorsione del mercato Per godere di piena applicazione, i regolamenti dell’Ue richiedono sovente il completamento delle loro specifiche tecniche per il tramite di atti di implementazione elaborati dalla Commissione europea con la collaborazione di gruppi di esperti nazionali e delle agenzie deputate alla materia, in questo caso l’Associazione dei Regolatori europei per le telecomunicazioni (Berec). Il regolamento 531 del 2012, che appunto disciplina la rimozione delle tariffe sul roaming, necessita di dettagliare la cosiddetta “fair use clause”, clausola che consente l’abbandono del roaming senza causare la distorsione del mercato interno. Dal 15 giugno 2017 le compagnie telefoniche dovranno infatti includere nei loro contratti i servizi di roaming alle stesse tariffe offerte per il traffico nazionale per chiamate, messaggi e connessione dati. A beneficiare delle nuove misure saranno i cittadini del Paese in cui è attivo l’operatore e coloro che con esso hanno legami stabili: studenti trasferiti all’estero per periodi di scambio, lavoratori “pendolari” (la Commissione cita ad esempio il caso di residenti francesi o tedeschi che si recano a lavorare in Lussemburgo) o cittadini che si trasferiscano per periodi prolungati in Paesi diversi di quelli di residenza. L’inclusione di questa fattispecie mira a combattere il ricorso ad un cosiddetto “roaming permanente”, ossia lo scatenarsi di una battaglia tariffaria con il conseguente ricorso ad operatori di altri Paesi che offrano tariffe inferiori a quelle del Paese di residenza. Nell’ultima versione dell’atto d’implementazione, che la Commissione ha presentato sul finire di settembre, il gruppo di lavoro ha dunque inserito tre criteri per verificare l’effettiva esistenza di pratiche abusive: la netta prevalenza di traffico in roaming rispetto a quello nazionale, la lunga inattività di una SIM che sia utilizzata esclusivamente in roaming e la sottoscrizione di abbonamenti multipli, utilizzati solo in roaming, da parte dello stesso utente. La diatriba sui tetti al roaming Questa formulazione, che dovrà essere discussa entro il prossimo 15 dicembre con il Berec, arriva in realtà al termine di una fase piuttosto turbolenta che ha rischiato di compromettere l’esito dell’intero regolamento. La sua prima versione, presentata agli inizi di settembre, includeva una combinazione di tetti di utilizzo del roaming e di tariffe applicate una volta superati: 30 giorni di utilizzo roaming consecutivo, 90 complessivi in un anno, e conseguenti tariffe di 4 centesimi al minuto per chiamata, 1 centesimo per SMS e 0,85 centesimi per Megabyte utilizzato. “Chi di noi viaggia in Europa lo fa in media per 12 giorni all’anno. Con un tetto di 90 giorni risulta ampiamente coperto” le giustificazioni addotte dal vice-presidente per il Mercato unico digitale, Andrus Ansip, e del commissario per l’economia digitale, Günther Oëttinger. Parole che hanno avuto scarsissimo appeal di fronte alla semi-insurrezione di popolo che, a soli quattro giorni dalla presentazione della proposta, ha convinto Jean Claude Juncker ad ordinare il ritiro della bozza. Piena soddisfazione dell’Associazione europea dei consumatori, e del Parlamento europeo che, dichiara il capogruppo del partito popolare europeo, Manfred Weber, a Politico Europe, è stato decisivo nel fare pressione su Juncker per evitare che i piani per il roaming deragliassero a un passo dall’arrivo. Insoddisfazione da parte degli operatori di telecomunicazioni europei che, per tramite della loro federazione europea Etno, lamentavano già come la soglia di 90 giorni all’anno fosse troppo alta per definire un uso equo del nuovo principio “roam-like-at-home”. La strategia per un’Europa “connessa” non si frena Le negoziazioni con Berec e gli esperti nazionali proseguiranno sino a dicembre: eliminati i tetti temporali, rimangono invece in piedi nella stessa misura le tariffe supplementari da applicare qualora gli operatori rilevino la presenza dei criteri di abuso delle nuove condizioni prima menzionati. Le ultime turbolenze non sembrano dunque poter frenare il completamento del primo, e politicamente più importante, pilastro della strategia per un’Europa “connessa” che la Commissione aveva già lanciato nel 2013, per avviare un processo di integrazione dei mercati delle telecomunicazioni, per tradizione arroccati sui loro campioni nazionali e profondamente divergenti in termini di costi. Un esempio? Secondo uno studio della Commissione del 2015, il pacchetto telefonico più economico può variare dai 12 euro in Estonia agli 81 della Grecia. Antonio Scarazzini è Analyst presso la Cattaneo Zanetto&Co e direttore di Europae-Rivista di Affari europei. |
venerdì 5 febbraio 2016
Quinto continente e la Potenza Responsabile
Cina Pechino e la difesa dell’interesse nazionale nei mari lontani Eleonora Ardemagni 07/03/2016 |
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Nuove ambizioni di rango e crescente integrazione economica globale si fondono: la “grande potenza responsabile”, primo contributore di caschi blu per le missioni di peacekeeping, è così chiamata a ricalibrare la sua visione olistica, come esplicitato a partire dal libro bianco del 2013 su L’impiego diversificato delle Forze Armate della Cina.
Il regional security complex di Aden e la diplomazia militare cinese
Quest’evoluzione dottrinale trova manifestazione politica in un teatro marittimo impervio: il regional security complex di Aden, fra Yemen e Somalia. È in questo quadrante che Pechino sta sperimentando l’espansione del concetto di sicurezza, non più sola “difesa dei mari vicini”, ma anche “protezione dei mari lontani”, dove la sicurezza marittima diviene sicurezza energetico-economica, fino a comprendere la difesa dei lavoratori cinesi espatriati.
Pertanto, nella subregione di Aden, le “operazioni militari diverse dalla guerra” - nel caso di specie peacekeeping, anti-pirateria, evacuazioni di civili - non sono semplici esercizi volti all’acquisizione di un’essenziale esperienza nella proiezione di forza militare all’estero, ma effettivi strumenti di difesa dell’interesse nazionale. Il microcosmo sociale di Aden è vischioso e caratterizzato dal collasso delle sovranità statuali.
Il regional security complex di Aden mette infatti in relazione la regione sudarabica e il Corno d’Africa: le dinamiche di sicurezza presenti in quest’area sono interrelate a tal punto da non potere essere analizzate separatamente.
La crescente rivalità tra sauditi e iraniani in Yemen potenzia il legame geopolitico esistente fra Golfo di Aden e Golfo Persico/Arabico. L’interdipendenza fra i network tribali dello Yemen e quelli clanici della Somalia accentua l’entropia di quest’area, spingendo gli studiosi ad adottare un nuovo modello di analisi delle dinamiche locali, basato sulla transnazionalità dei flussi, in primo luogo umani.
La Cina al tavolo delle potenze del Golfo
La Cina è fortemente interessata alla stabilità del regional security complex di Aden per almeno tre ragioni: i forti rapporti energetico-economici con il Golfo, la libertà di navigazione nello stretto del Babel-Mandeb (e relativo contrasto alla pirateria), la proiezione economica in Africa orientale, anche mediante forme di diplomazia militare.
I fenomeni della globalizzazione e il relativo disimpegno statunitense in Medio Oriente hanno consentito a Pechino di rafforzare rapporti diplomatico-commerciali con le monarchie del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg), anzitutto a tutela delle necessità energetiche interne: secondo la Energy Information Administration, nel 2014 il 26% del greggio importato dalla Cina proveniva da Arabia Saudita e Oman.
L’Arabia Saudita, frustrata dal riavvicinamento fra Washington e Teheran su dossier nucleare e lotta al cosiddetto Califfato, guarda sempre più a est per diversificare la propria rete di partnership internazionali.
Riyadh, firmataria di un accordo di cooperazione sul nucleare civile con Pechino (2012), punta a incrementare le forniture militari e a rafforzare i legami con la Cina nel campo della sicurezza, pur rimanendo cosciente dell’indispensabilità dell’ombrello di difesa statunitense.
Anche con l’Iran Pechino coltiva una relazione stretta: l’obiettivo della diplomazia cinese è massimizzare i benefici dell’interazione parallela con le sponde rivali del Golfo, come testimoniato dalla compresenza di Arabia Saudita e Iran nella Banca asiatica d’investimento per le infrastrutture (Aiib).
Interessi energetici e missioni anti-pirateria congiunte
Dati i forti interessi energetici nella regione, la stabilità dell’area di Aden è essenziale: unità della Marina cinese sono qui dispiegate dal 2008 in missione anti-pirateria e la presenza di numerose operazioni internazionali (tra cui la Combined Task Force 151, Ocean Shield della Nato e Atalanta-Eunavfor dell’Unione europea) ha in effetti contribuito alla sensibile riduzione delle incursioni tra Aden e le acque somale.
La condivisione degli obiettivi fra Usa, Nato, Ue e Cina ha qui permesso un gioco a somma positiva, evidenziato dal buon funzionamento del meccanismo Shade (Shared Awareness and Deconfliction). Nel novembre 2015, Cina e Nato hanno svolto nel Golfo di Aden le prime esercitazioni congiunte anti-pirateria.
L’impegno cinese a contrasto della pirateria offre anche nuove opportunità di proiezione economica in Africa orientale. Al di là degli investimenti in concessioni di terreni e risorse naturali, Pechino sta promuovendo iniziative economiche con significativi risvolti in campo marittimo, tese a potenziare le infrastrutture ferroviarie e portuali della costa africana, in chiave commerciale (si veda, ad esempio, la costruzione del porto di Lamu in Kenya).
Cinesi equilibristi fra sauditi e iraniani
In questo contesto la Cina compete con Turchia, monarchie del Golfo, Iran e India. Il conflitto yemenita destabilizza tuttavia l’intero quadrante: nato come scontro interno fra centro e periferia, si è trasformato in epicentro della rivalità regionale fra Arabia Saudita e Iran.
In questa cornice, la Cina ha da subito cercato di mantenere una posizione di equidistanza fra i patron sauditi e iraniani: Pechino ha votato la risoluzione n. 2216 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, che chiede il ritiro delle milizie sciite, sostenute da Teheran, dalle aree occupate, pur invitando Riyadh e Abu Dhabi a fermare i bombardamenti della coalizione sunnita.
Spingendosi ai limiti del “coinvolgimento creativo”, la Cina ha avviato contatti diplomatici con Ansarullah (il movimento degli huthi, gli insorti sciiti zaiditi del nord) e, al contempo, ha dissuaso il Pakistan dall’intervenire militarmente, come invece richiesto dai sauditi.
Anche sul caso del religioso sciita Nimr Al-Nimr, giustiziato dall’Arabia Saudita nel gennaio 2016, i cinesi hanno optato per un equilibrismo diplomatico: il vice ministro degli esteri Zhang Ming si è recato in entrambe le capitali rivali del Golfo, auspicando una de-escalation della tensione.
La scelta di Gibuti come sede della prima base militare permanente della Rpc all’estero rimarca la centralità del quadrante di Aden. Le due operazioni di evacuazione di lavoratori cinesi dallo Yemen effettuate dalla Marina militare di Pechino (122 cittadini imbarcati da Aden il 29 marzo, 449 da Hodeida il 30 dello stesso mese) hanno enfatizzato la necessità, a fronte di crescenti interessi economici, di un “appoggio logistico” nell’area.
La questione yemenita agli occhi di Pechino
Stabilizzare la città yemenita di Aden, porto commerciale proteso su Corno d’Africa e Oceano Indiano, rientra dunque nell’orizzonte strategico cinese. Lo Yemen esporta circa 1,5 milioni di barili di petrolio ogni mese dal terminal di Masila (Hadramout), con principale destinazione la Cina: nel primo bimestre del 2015, l’import cinese di greggio yemenita è addirittura aumentato del 315% rispetto allo stesso periodo del 2014.
D’altro canto, le vie d’acqua che circondano lo Yemen si trovano nel mezzo della cosiddetta Via della seta marittima del XXI secolo, iniziativa centrale per la politica estera cinese delineata dal presidente XiJinping nel 2013, in parte per controbilanciare il pivot to Asia statunitense. Ecco perché la protezione di determinati mari lontani equivale, oggi, per la Cina, alla difesa dello stesso interesse nazionale.
Articolo pubblicato su OrizzonteCina, rivista online sulla Cina contemporanea a cura di Torino World Affairs Institute e Istituto Affari Internazionali.
Eleonora Ardemagni, analista di relazioni internazionali del Medio Oriente, collaboratrice di Aspenia, ISPI, Limes, Storia Urbana. Gulf analyst per la Nato Defense College Foundation. Autrice di “United Arab Emirates' Armed Forces in the Federation-Building Process: Seeking for Ambitious Engagement”, International Studies Journal 47, vol.12, no.3, Winter 2016, pp.43-62.
giovedì 21 gennaio 2016
L'ONU: i nuovi obiettivi "millennium"
Obiettivi del millennio L’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile Lorenzo Vai 17/01/2016 |
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Questo il nome ambizioso che 193 Stati diedero a una lista di obiettivi, altrettanto ambiziosi, tesi alla crescita dei paesi in via di sviluppo, Pvs, e al generale miglioramento delle condizioni di vita di centinaia di milioni di persone.
Obiettivi che avevano una data di scadenza, il 31 dicembre 2015. Piuttosto che festeggiare per i successi ottenuti negli ultimi 15 anni, l’Onu si è rimessa al lavoro dandosi nuovi obiettivi per ottenere i risultati mancati e migliorare quelli conquistati.
Mdg, lotta alla povertà e alle sue conseguenze
La lista degli obiettivi presentati a inizio secolo, i Millennium Development Goals, Mdg, si focalizzava su otto azioni, ritenute prioritarie nella lotta alla povertà e alle sue conseguenze: lo sradicamento della povertà estrema e della fame nel mondo; l’universalità dell’istruzione primaria; la promozione della parità di genere e dell’autonomia delle donne; la riduzione della mortalità infantile; la riduzione della mortalità materna; la cura dell’Hiv/Aids, della malaria e di altre malattie; la garanzia di una sostenibilità ambientale; la creazione di un partenariato mondiale per lo sviluppo.
Ogni azione contava un numero di sotto-obiettivi specifici, il cui progresso o raggiungimento è stato valutato sulla base degli indicatori offerti dalle diverse agenzie Onu ed organizzazioni internazionali coinvolte. Un’opera di valutazione tutt’altro che semplice, resa ancora più complessa dalla diffusa penuria di dati attendibili che contraddistingue molti Pvs.
Bicchiere mezzo pieno
Dopo quindici anni il bicchiere appare mezzo pieno. Secondo il rapporto finale pubblicato dall’Onu nel luglio del 2015, i Mdg hanno dato vita al movimento di lotta alla povertà di maggior successo della storia, un’iniziativa che è riuscita a conseguire circa metà degli obiettivi (alcuni tra i più significativi, come dimezzare rispetto al 1990 la percentuale di popolazione che vive in estrema povertà e che soffre la fame, o ridurre di due terzi la mortalità infantile), sfiorando in molti casi - a seconda delle regione geografica considerata - il raggiungimento dell’altra metà (sull’istruzione primaria, l’uguaglianza di genere e la salute materna c’è ancora da lavorare).
Progressi incompleti, ma significativi, che proprio a partire dall’anno 2000 hanno iniziato a registrare un’evidente accelerazione, al pari di un sensibile aumento degli aiuti allo sviluppo da parte dei paesi più ricchi. Insomma, un bicchiere non colmato fino all’orlo (gli obiettivi si pongono volutamente in alto), ma che sarebbe stato impossibile da riempire se non fosse stato neppure messo sul tavolo.
Sustainable Development Goals
È tempo quindi di festeggiare per i successi? No, nel 2016 toccherà rimettersi al lavoro per ottenere i risultati mancati e migliorare quelli conquistati. I nuovi diciassette Sustainable Development Goals, Sdg, che l’Assemblea generale dell’Onu si è data lo scorso settembre ampliano il campo d’azione rivolgendosi questa volta a tutti i paesi (non solo ai Pvs) ed alzando gli obiettivi rispetto alla precedente iniziativa.
L’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, sin dal nome, cercherà di dedicare più attenzione alle questioni ambientali, ritenute ormai da tutti gli Stati di primaria importanza nell’assicurare le premesse per un futuro di pace e prosperità, come ha anche testimoniato il buon esito - per ora sulla carta - della recente conferenza sul clima di Parigi.
Se nel 2015 tante cose sono cambiate nel mondo rispetto all’inizio del secolo, a partire dal ruolo e dalla centralità dell’Onu, la più grande sfida posta al perseguimento degli Sdg rimane sempre la stessa, la sincera volontà ed il genuino impegno da parte dei governi di tutti gli Stati. Una banalità, certo, ma più che mai veritiera dinnanzi a un accordo solenne, ma non vincolante, qual è l’Agenda 2030.
Un ostacolo politico a cui vanno aggiunti i problemi di coordinamento tra le agenzie nazionali e internazionali e i rispettivi programmi per lo sviluppo, la formulazione di obiettivi a volte troppo generici (ma così attraenti per l’opinione pubblica) e la conseguente difficoltà ad affermare progressi omogenei tra le diverse regioni del mondo, oltre all’acuirsi di molti teatri di crisi (senza pace non può esserci sviluppo).
Sono molti i punti che si prestano alle obiezioni di chi dubita dell’efficacia di queste iniziative globali, nonostante i risultati dei Mdg, nel lungo periodo, dimostrino il contrario.
Come l’Unione europea ha sperimentato sulla propria pelle nell’ultimo anno - decretato con un pizzico di ironia del destino “Anno europeo per lo sviluppo” - le precarie condizioni di stabilità e crescita di un paese sono sempre più interconnesse con il resto del mondo.
Il lavoro di un’organizzazione universale che si adoperi nella ricerca di uno sviluppo sostenibile che sia il più inclusivo e partecipato possibile non è mai apparso tanto attuale e necessario. Per giudicarlo però si è ancora in anticipo.
Lorenzo Vai è è assistente di ricerca dello IAI e del Centro Studi sul Federalismo.
lunedì 4 gennaio 2016
FAO: FORESTE PER FRONTEGGIARE FAME E POVERTA’
Il XIV Congresso Mondiale sulle foreste, che si è chiuso il
12 settembre 2015 a
Durban in Sud Africa, organizzato con il
sostegno della FAO, è arrivato alla conclusione che le foreste possono essere
decisve per mettere fine alla povertà ed alla fame per la sicurezza alimentare
per promuovere una agricoltura sostenibile per lottare contro il cambiamento
climatico e per assicurare l’energia disponibile.
E’ stato elaborato un piano, adottato dopo una settimana di
discussione, di come le foreste e la silvicoltura dovrebbero essere nel 2050.
Tale piano afferma che le foreste del futuro saranno fondamentali per la
sicurezza alimentare: gli alberi devono essere integrati con altri usi del
suolo, come l’agricoltura, per affrontare le cause della deforestazione ed i
conflitti per la terra.
Inoltre la gestione sostenibile delle foreste deve essere una
soluzione sostenibile per la ltta contro il cambiamento climatico ottimizzando
la loro capacità di assorbire e immagazzinare carbonio fornendo anche altri
servizio ambientali. Il piano prevede nuove patnerschip tra il settore
forestale,agricoltura, la finanza, l’energia, l’acqua ed altri settori
consimili oltre ad un forte impegno con i popoli indigeni e le comunità locali.
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