Al momento, Tesla Motors è certamente il brand più noto al mondo nel settore dei veicoli elettrici. Tuttavia, se fino a due anni fa la società californiana poteva definirsi leader indiscusso a livello globale, oggi si trova a inseguire le aziende cinesi e a competere sempre più duramente con i colossi dell’auto americani ed europei.
Certamente, il ridimensionamento della quota globale assorbita dal mercato americano dell’auto elettrica, oggi terzo al mondo dopo Cina e Unione europea + Norvegia, ha inciso notevolmente sulle vendite di Tesla. Analisti indipendenti stimano in oltre 280.000 i veicoli elettrici venduti nel 2016 sul mercato cinese, di cui solo il 3% a marchio Tesla, con una crescita su base annuale del 27%, mentre le vendite sul mercato americano si sono attestate a circa 150.000 unità, di cui circa un terzo Tesla, ma con un tasso di crescita su base annua solamente dello 0,8%.
La perdita del primato globale non è solo conseguenza di una ridistribuzione della domanda a livello internazionale, ma è legata anche al modello di business adottato dalla società di Palo Alto. Infatti, Tesla Motors è uno degli esempi più compiuti del fenomeno definibile come brandizzazione del progresso.
Un successo nello spirito del tempo Sin dal principio la cifra del successo di Tesla Motors è stata di saper incarnare lo Zeitgeist, lo spirito del tempo. L’affermazione del neoliberismo, l’avvento della globalizzazione, la crisi del modello socialdemocratico e il crollo del blocco sovietico hanno aperto una fase storica in cui libertà, velocità, diversità, connettività ed esibizione sono diventate parole d’ordine e di cui i colossi dell’high tech sono stati i massimi artefici, i più devoti araldi e i principali beneficiari.
Le linee eleganti, le prestazioni eccezionali, la filosofia ecosostenibile e open source, la dotazione tecnologica d’avanguardia, le innovative strategie di marketing e l’estro visionario del patron Elon Musk hanno reso le Tesla simboli di una way of life, della filosofia del benessere in cui, con ipocrisia e ingenuità, si rispecchia la nuova classe dirigente globale e globalista.
Non è un caso che dal 2015 Tesla Motors sia al vertice della classifica delle società più innovative al mondo stilata da Forbes: l’azienda di Palo Alto non ha certamente puntato sui numeri, quanto piuttosto su una supremazia iconica. L’equilibrio sui cui si fonda il successo di un progetto così ambizioso è però estremamente complesso e per molti aspetti fragile.
Come scriveva, infatti, oltre un secolo fa Georg Simmel, “In whatever empirical or transcendental sense the difference between objects and subjects is conceived, value is never a ‘quality’ of the objects, but a judgment upon them which remains inherent in the subject”. E, come ha ricordato più recentemente l’antropologo Arjun Appadurai, “demand is a socially regulated and generated impulse, not an artifact of individual whims or needs”.
Il modello di business di Tesla Motors si colloca perciò al centro di un vasta rete simbolica, strutturato su più livelli e dimensioni. L’intelaiatura di questo network s’interseca e si fonde in più parti con i tradizionali capisaldi teorici e morali della civiltà occidentale, legando in profondità le prospettive industriali di Tesla Motors all’egemonia culturale e morale che questo sistema valoriale è in grado di esercitare sull’umanità.
La nuova fase e la reazione californiana Nel corso del passato decennio, l’azienda californiana ha potuto contare sul terreno di coltura ideale per svilupparsi ed evolversi. Tanto l’estetica politica quanto le scelte programmatiche dell’Amministrazione Obama erano perfettamente complementari al modello socio-culturale cui fa riferimento Tesla Motors. La nuova Amministrazione sembra, invece, piuttosto lontana da quel sistema valoriale.
L’esaltazione dell’eccezionalismo americano in contrapposizione all’internazionalismo, la repulsione nei confronti della divergenza e della diversità, l’insofferenza nei confronti dell’universalismo di matrice umanistica, la retorica violenta e divisiva che caratterizzano sinora la Presidenza Trump mettono in discussione le fondamenta concettuali dell’attuale egemonia morale e culturale occidentale e, di conseguenza, rappresentano una minaccia esistenziale per tutti i soggetti radicati in quell’ecosistema culturale e psicologico.
Il neo-eletto presidente sembra non comprendere che sulla condivisione di quel sistema valoriale i colossi dell’high tech, e non solo loro, hanno fondato business da centinaia di miliardi di dollari. Le big corp californiane appaiono infatti sul piede di guerra. Ma Google, Facebook o Amazon sono aziende con dimensioni molto più grandi e ramificazioni molto più vaste di Tesla: nel corso degli ultimi anni, hanno assunto la forma di conglomerati, con attività diversificate e spalmate in più segmenti e su più livelli della Catena del Valore Globale.
Elon Musk, al contrario, ha dato vita a una galassia di startup plasmate, con la sola esclusione di Pay Pal, sul medesimo modello imprenditoriale e con core business estremamente avanzati e pionieristici, rimanendo perciò più esposto alla volubilità del contesto politico, culturale e psicologico nazionale e internazionale.
Di conseguenza, mentre i suoi colleghi fanno lobbing contro la nuova Amministrazione, sapendo che comunque questa battaglia non mette a repentaglio la loro sopravvivenza, il magnate sudafricano ha accettato l’incarico di consigliere del presidente, reputando con tutta probabilità l’attuale fase di transizione verso quel futuro immaginato 15 anni fa troppo delicata per permettersi il lusso di contemplare la prospettiva di un fallimento. Tieni vicini gli amici, ma ancor di più i nemici. Soprattutto se navighi in acque pericolose.
Enrico Mariutti, laureato in storia antica presso la Sapienza, ha conseguito un Master di II livello in Geopolitica e Sicurezza Globale; attualmente collabora con l’Istituto Alti Studi di Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG).
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